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mercoledì 4 settembre 2013

Si amava e si odiava sul serio

 “Come doveva essere bello il mondo” pensava con un rimpianto ironico, quando un marito tradito poteva gridare a sua moglie: “Moglie scellerata; paga con la vita il fio delle tue colpe” e, quel ch’è più forte, pensar tali parole; quando al pensiero seguiva l’azione: “Ti odio” e zac! Un colpo di pugnale: ecco il nemico o l’amico steso a terra in una pozza di sangue; quando non si pensava tanto, e il primo impulso era sempre quello buono; quando la vita non era come ora ridicola, ma tragica, e si moriva veramente, e si uccideva, e si odiava, e si amava sul serio, e si versavano vere lacrime per vere sciagure, e tutti gli uomini erano fatti di carne ed ossa e attaccati alla realtà come alberi alla terra. A poco a poco l’ironia svaniva e restava il rimpianto; egli avrebbe voluto vivere in quell’età tragica e sincera, avrebbe voluto provare quei grandi odi travolgenti, innalzarsi a quei sentimenti illimitati… ma restava nel suo tempo e nella sua vita, per terra.

Queste parole, quelle di Alberto Moravia ne “Gli indifferenti”, se ben recepite e assorbite a pieno, sono in grado di dare uno schiaffo al mondo con un’eleganza straordinaria, risvegliandolo dal suo voluto e studiato torpore. Nel romanzo, infatti, il corpo di Michele (il protagonista del passo che mi ha stregato) si libera della sua funzione originaria, ovvero di essere specchio esteriore di un’anima interiore, per assumerne quella passiva di un’arena, un campo di battaglia nel quale i lottatori sono il Michele autentico e un Michele utopistico. Il protagonista sente e subisce il peso delle costrizioni sociali, è completamente schiacciato dal dover essere che gli impone di indignarsi per determinati affronti alla propria persona, di innamorarsi secondo un percorso prestabilito, di frastornarsi per quella “sudicia avventura” che vedeva sorella e madre amanti del medesimo uomo… ma Michele non prova nulla, se non apatia, semplice e odiosa indifferenza. Quello che più attrae e, allo stesso tempo, fa rabbrividire è che quest’indifferenza, questa incapacità di comprendersi e riconoscersi,  è tremendamente familiare.
Viviamo in un mondo in cui i rapporti umani, più che basarsi su reali, travolgenti e spesso pericolose passioni, si fondando su studiata, calcolata e scientifica metodicità: la spontaneità e il rischio lasciano il posto alla sicurezza. Non credo servi andare molto lontano per ritrovare quell’età tragica e sincera, basterebbe tornare al tempo dei nostri genitori, nei mitici anni ’70 e ’80, quando, se incontravi il possibile amore della tua vita, dovevi cogliere al volo l’occasione, senza aspettare di potergli inviare una richiesta d’amicizia su facebook; quando bastava l’accenno di uno sguardo per scatenare le fantasie più inconfessabili;  quando la sera ci si ritrovava tutti in piazza, sulle ginocchia della nonna per sentirla raccontare storie dell’orrore e nessuno sentiva il bisogno di dover accendere la tv; quando era impossibile vedere bambini che non avessero i pantaloni all’altezza delle ginocchia macchiati col verde dell’erbetta… un mondo reale, concreto e allo stesso tempo magnifico e cristallizzato, la cui estrema vicinanza e il vivido ricordo rendono quest’indifferenza ancora più insopportabile.
Ilaria 





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